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Dislessia: 5 luoghi comuni da sfatare

Imparare a conoscere davvero il disturbo è il primo passo verso il cambiamento: sfatiamo 5 luoghi comuni sulla Dislessia che circolano nell’opinione pubblica, tra professionisti in aiuto alla persona, nella scuola e in famiglia.

 

 

1)   Faccio errori quando leggo, allora sono dislessico

Dipende. La dislessia interessa circa il 2-3% della popolazione ed è un disturbo caratterizzato da una difficoltà nel leggere in modo corretto e fluente. In pratica compie errori di decodifica e/o non ha automatizzato sufficientemente  la conversione grafema-fonema, risultando così lenta nella lettura. Va distinto quindi se si tratta di errori e esitazioni che rientrano nella norma, se siamo invece di fronte ad una difficoltà o ad un vero e proprio disturbo.

 

2)   La dislessia è una neurodiversità, quindi non si può guarire

Vero, in parte. Intanto è vero nel senso che la dislessia non è una malattia, ma un disturbo derivante da una caratteristica (neurodiversità) che interagisce con l’ambiente. Molti di quelli che hanno una diagnosi di dislessia in realtà non sono veri e propri “dislessici”: ci sono infatti molte, fin troppe certificazioni di DSA che banalizzano i profili presentati, forzandoli in questa categoria nosografica. La dislessia, quella vera e propria, è in effetti una neurodiversità, cioè è un modo diverso di funzionamento cerebrale. Tuttavia questo modo diverso crea difficoltà, disagi (quindi un disturbo) in molti ambiti, non solo quello scolastico. Inoltre tale diverso funzionamento su base biologico (in realtà ciascuno di noi è almeno in parte neurodiverso dagli altri) ha nell’interazione con l’ambiente la capacità di evolvere in percorsi molto diversificati tra loro. Data la plasticità neuronale comunque le difficoltà e il gap con i normolettori può essere se non eliminato, fortemente ridotto.

 

3)   Fatta la diagnosi, informata la scuola, siamo a posto

No. È la condanna di quelli che si accontentano di certificare il proprio disturbo (o il disturbo dei figli) e credono che quelle tutele derivate dalla legge siano sufficienti. La diagnosi (e la conseguente certificazione) permettono alcune tutele che si traducono in un piano didattico personalizzato, finalizzato a far apprendere “nonostante” il disturbo. Si tratta di aggirare l’ostacolo, insomma. Altra cosa è avere i mezzi per cercare di superarlo, a proprio modo.

 

4)    L’aiuto specialistico è condotto da un professionista sanitario (Neuropsichiatra, Psicologo, Logopedista)

Non necessariamente. L’intervento specialistico può essere condotto da professionisti diversi (sanitari e socio-educativi in genere), ognuno con modalità e obiettivi in parte differenti.

 

5)   Einstein, Da Vinci e altri grandi della storia erano dislessici

E chi l’ha detto? E, comunque: quindi? La caccia al personaggio famoso che aveva problemi di lettura è solo un modo per attirare l’attenzione, è una comunicazione persuasiva: facendo leva sul bisogno di riconoscimento e appartenenza delle persone che hanno una difficoltà, attira l’attenzione, in genere, per incrementare la visibilità o vendere più o meno direttamente e più o meno esplicitamente qualcosa. Il problema è che contribuisce solo a creare nelle persone la perdita della propria identità, per assumere su di sé quella di “dislessico”. Ognuno è diverso. Ognuno può avere successo o meno. Ognuno ha le proprie difficoltà. E soprattutto ognuno ha il suo nome e non deve perderlo per assomigliare a persone famose o per far parte di un gregge. Se da un lato questo è anche un modo semplice per affrontare la cosa, dall’altro, e proprio per questo, rischia di non permettere l’evoluzione personale.

 

Questi luoghi comuni, come tutti i riduzionismi, cercano di semplificare fenomeni complessi e dall’alto contenuto emotivo. Sfatare questi miti, che pur hanno dei microelementi di verità, significa da professionisti nell’aiuto alla persona assumersi la responsabilità di cercare i mezzi, i metodi, le metodologie idonee a favorire un cambiamento, una evoluzione il più positiva possibile in quanti sono e si sentono in difficoltà. Non prendere per assolutamente vere le affermazioni banalizzanti, da parte di coloro che hanno disturbi o difficoltà negli apprendimenti, significa prendere in mano il proprio destino, andare incontro alla fatica che ciascun cambiamento richiede, ma aprirsi alla possibilità di essere il più efficaci possibile con le proprie caratteristiche. Due responsabilità diverse che chiedono di “non sedersi sugli allori”, come si suol dire, ma di muoversi.

 

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