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Mediare fa rima con educare: la mediazione familiare come percorso educativo

L’articolo è tratto dalla relazione del Dott. Carlo Matteo Callegaro, tenuta al Congresso “L’uomo…con la valigia: viaggi e viaggiatori nelle relazioni di aiuto alla persona”, 8-9 ottobre 2016, Firenze. L’autore, Pedagogista Clinico e Mediatore Familiare, è docente ISFAR per la Formazione per Mediatori Familiari.

 

Da Gandhi…alla Mediazione Familiare

 

Da oltre vent’anni viaggio molto per ragioni di lavoro, principalmente in Italia e in Europa e oramai faccio fatica ad immaginarmi stanziale in un unico luogo. Da sempre ho un’abitudine: quella di mettere in valigia, oltre a ciò che mi occorre per quel periodo, almeno un libro. Non è sempre lo stesso, spesso è uno che ho iniziato a casa e spero di concludere durante il viaggio. Perché io amo visitare luoghi nuovi, ma il tempo del viaggio, dello spostamento tra casa e la meta, mi annoia moltissimo. Altre volte è un libro che non apro, ma che porto con me solo per averlo vicino, come rassicurazione, amico, compagno. Sono pochi i libri che considero compagni di vita, ai quali sono affezionato e che so che porterò con me anche nei prossimi viaggi.
Uno di questi è “Antiche come le montagne” di Gandhi. È il libro che ho portato con me oggi [9 ottobre 2016, n.d.r.], in questo viaggio a Firenze, e che è entrato in valigia più di venticinque anni fai. È il libro che mi ha ispirato e ispira nel lavoro di pedagogista clinico e mediatore familiare. Gandhi (2009) affermava che “la verità e la non violenza sono antiche come le montagne”. Non c’è nulla da insegnare di nuovo alle persone, ma solo recuperare questi valori inscritti nella natura stessa degli esseri umani. Scoprii questo libro molto giovane, durante l’adolescenza. Momento in cui si affronta la classica sfida di trovare una propria identità. Per effetto dell’adolescenza, che ti fa aprire gli occhi e cogliere ciò che c’è attorno a te, in quel periodo inizia a vedere le miserie dell’essere umano. Vidi la sofferenza causata dall’ingiustizia dei pochi a scapito dei molti. Vidi lo sfruttamento delle risorse dell’ecosistema perpetrato non solo per ignoranza, ma soprattutto per avidità. Di fronte a queste nuove informazioni ogni essere umano ha tre strade: chiudere gli occhi e non vedere, arrabbiarsi e scendere in guerra contro il mondo, impegnarsi in un progetto che porti il massimo beneficio possibile alle persone. Sapendo che non risolverà i problemi del mondo, ma se anche solo migliorerà qualcosa di sé e attorno a sé, ne sarà valsa la pena.
Scelsi la terza strada e trovai nelle parole di Gandhi non solo un balsamo al mio animo sofferente per ciò che vedevo, ma soprattutto le basi per il progetto di miglioramento.
Passarono alcuni anni in cui cercai alleati e mentori per realizzare il mio progetto, ma senza particolare successo, fino a che incontrai il prof. Guido Pesci. Ricordo ancora la prima lezione del corso in Pedagogia Clinica che frequentai, oramai più di quindici anni fai, in cui il professore ci parlò dell’oracolo di Delfi e dell’esortazione: “conosci te stesso” alla base del pensiero pedagogico clinico.
Conoscere se stessi significa accedere alla verità di ciò che si è, quindi più ci si conosce più si diventa verità. Il professore ci spiegò che il compito più importante di ogni persona è conoscere se stessi, e che il pedagogista clinico aiuta le persone in questo loro percorso. Aderii immediatamente a questo pensiero, tant’è che uscii dalla prima lezione con una certezza: era questo il lavoro che avrei svolto per il resto della mia vita. È così è stato fino ad ora. Incontrai quindi tanti bambini e bambine e tanti genitori. Via via che il tempo passava mi accorsi che molti dei disagi e delle difficoltà dei bambini erano il riflesso di disagi e difficoltà dei loro genitori. Mi resi conto che i piccoli davano semplicemente voce alle difficoltà dei grandi. I genitori mi portavano i bambini perché erano loro che dichiaravamo il problema, ma io mi trovavo a volte impotente, perché l’origine delle difficoltà stava nella generazione precedente e, a volte, in quella precedente ancora.
Ho sempre cercato di svolgere al meglio il mio lavoro e gli insuccessi per me sono difficili da digerire. Per questo mi misi a cercare una soluzione per questo tipo di situazioni.
Incontrai quindi la scuola di mediazione familiare, anche qui durante la prima lezione rimasi colpito da un’affermazione del dr. Aldo Mattucci, direttore della scuola: “Che bello, un pedagogista in aula, tutti i pedagogisti dovrebbero imparare la mediazione così da insegnare ai genitori a gestire i loro conflitti”. Mi incuriosì molto questa sua affermazione, e solo con il tempo ne capii la portata. Capii che mediare non è semplicemente trovare un accordo, “fare a mezzo”, raggiungere un punto di incontro. Mediare è trovare una soluzione terza che garantisca il massimo bene di tutti. Questo implica voler risolvere un conflitto evitando di nuocere l’altro e questo è il principio base della non – violenza. Ecco che la mediazione familiare mi ha permesso di trasferire nella mia vita professionale il secondo valore antico come le montagne.

 

La logica “win win” e la gestione dei conflitti

 

Ogni volta che incontro una coppia di genitori in conflitto, il mio obiettivo non è l’accordo, non è semplicemente risolvere il problema o il quesito che mi pongono. È essenzialmente educarli a gestire i conflitti usando la logica “win win”. È presente, nella nostra cultura, l’idea che i conflitti si risolvano con un vincitore e un perdente, così come l’idea che il conflitto sia esclusivamente originato dalle cattive intenzioni dell’altro. Il paradigma applicato è quindi quello del nemico, di cui che vuole attaccare e minare la propria integrità, il proprio patrimonio e la propria libertà. Ma come possono sussistere nella stessa persona due ruoli: quello dell’altro genitore dei propri figli e nemico? Uno esclude l’altro.
Un conflitto familiare non può chiudersi con l’annientamento dell’una o dell’altra parte, perché ciò significherebbe distruggere la genitorialità stessa. La genitorialità si realizza sempre grazie alla presenza e azione di due persone. La logica “win win” è quella che vede i due coniugi impegnarsi nello scoprire qual è il problema che ha originato il conflitto, così da affrontarlo cercando di garantire che entrambi ottengano un accordo in grado di soddisfare il più alto numero possibile di bisogni reciproci. Questa logica è l’unica che offre un reale aiuto alle famiglie nel “superare la transizione”, come affermano Scabini e Cigoli (2000), cioè nell’affrontare proficuamente la fine del patto coniugale, sapendo portare in salvo il legame medesimo. Condizione indispensabile per tutelare il passaggio generazionale attraverso la cura congiunta dei figli.
Questo perché se è vero che il matrimonio tra due persone può finire molto presto, è anche vero che si rimane genitori per sempre, anche dopo la morte fisica. Quasi mai i genitori sono consapevoli della grande responsabilità che assumo quando decidono di mettere al mondo un figlio e del potere che madre natura ha affidato a loro. Non serve scomodare psicoanalisti e studiosi dell’inconscio per rendersi conto di quanto i genitori influiscano nella costruzione dell’identità di ogni persona. Questo sia nel bene, che nel male.
Quando l’amore tra due persone finisce nasce sempre un conflitto, che serve per trasformare la vecchia realtà in una nuova. Imparare a gestire i conflitti significa imparare ad utilizzare il potere trasformativo del conflitto per distruggere ciò che non è più utile per costruire ciò che è utile.  Nel tempo successo alla separazione dei due coniugi, questi spesso operano delle scelte organizzative che possono amplificare il conflitto od operare per un loro confusivo riavvicinamento. Scelte che all’apparenza sembrano semplici e senza particolari ripercussioni quali, per esempio, come e dove si festeggia il Natale. Alcuni genitori scelgono di passare il giorno di Natale entrambi assieme ai propri figli, senza rendersi conto che così facendo disconfermano, nella testa dei figli, la separazione. Non considerano il potenziale disagio di loro stessi che vivono per un giorno un riavvicinamento che da una parte riporta alla memoria i momenti sereni di coppia, ma allo stesso tempo evidenzia le ragioni per cui si sono lasciati. Scelte fatte per non far soffrire i figli, ma che hanno come motivazione profonda il tentativo di soffrire meno i due ex coniugi.
Ecco la mediazione mette ordine all’interno di queste scelte, essenzialmente aiutando i due genitori a mettere al centro tutta la famiglia: loro e i figli. Il mediatore aiuta i genitori a “mettersi nei panni del loro figli” ad osservare il mondo dal loro punto di vista. Soprattutto li aiuta ad essere coerenti con le loro scelte, perché è nel tentativo di volere accontentare tutti che non si accontenta nessuno. Tutto questo non significa fornire risposte preconfenzionate. Il mediatore dovrà maieuticamente far emergere e sviluppare le soluzioni, come afferma Mattucci “facendo leva sull’amore che i genitori comunque e sempre sentono verso i loro figli. Sullacapacità di ognuno di assumersi fino in fondo le responsabilità che gli competono in quanto genitore e che sono state attenuate dalla sofferenza legata alla separazione”.

 

La non-violenza in famiglia

 

Ho imparato, non solo sui libri, ma per esperienza personale, che la famiglia deve essere il luogo di crescita per tutti. Quando non lo è, nascono disagi che possono diventare patologie. Se l’amore tra due coniugi finisce, il conflitto serve a ristrutturare le relazioni per definire una nuova famiglia che permetta di continuare ai membri di crescere. Questo può avvenire solo se si applica la non – violenza. Quindi il lavoro del mediatore, per me, è un lavoro educativo, che permette ai genitori di imparare a gestire il conflitto applicando il valore della non – violenza. Questo ha un immediato un effetto positivo immediato nei figli, e non è poco. Sappiamo che il clima di conflitto portato avanti nel tempo è il terreno in cui nascono i disagi dei bambini. Ha, inoltre, un effetto nel lungo periodo, perché quando questi bambini cresceranno diverranno a loro volta genitori.
Come affermano Erikson e McKnight (1990; 2001): “Il conflitto è connaturale nelle relazioni, è neutro, ne positivo ne negativo, dipende dallo stile di fronteggiamento che le persone utilizzano”.
Queste strategie sono di solito apprese in giovane età e sembrano funzionare in modo automatico. Normalmente non abbiamo consapevolezza di come ci comportiamo nella gestione di situazioni conflittuali. Facciamo proprio tutto ciò che ci sembra venire naturale. Così in una catena generazionale i conflitti vengono affrontati purtroppo con la medesima modalità, che spesso è quella disfunzionale a trovarne una soluzione. L’apprendimento dello stile di fronteggiamento del conflitto è un apprendimento “informale”, nessuno è andato a scuola, ma tutti lo abbiamo imparato attraverso le azioni o non azioni dei nostri genitori e degli adulti di riferimento. Così tutto ci sembra naturale, normale e soprattutto giusto. Non ci si pone la domanda se è funzionale o meno, se può aiutare a trovare armonia o generare violenza. È per questo che le statistiche affermano che i figli di genitori separati hanno più probabilità di separarsi dai propri futuri partner in età adulta. Questo perché hanno imparato un modo disfunzionale di gestire i conflitti.
Tutto ciò che affermo vi può sembrare ovvio, semplice e allo stesso tempo di difficile applicazione. È l’esperienza che hanno fatto molti allievi del corso di mediazione familiare. Non solo e non tanto quando si presentano le teorie che sostanziano questi concetti, ma quando si analizzano i propri stili di fronteggiamento del conflitto e si coglie quanto l’esperienza familiare ha contribuito a generarli. Il primo e principale cambiamento, quello più impegnativo, che chiediamo agli allievi del corso di formazione è di assumere che il conflitto è connaturale alle relazione, che è neutro e che sono le persone che ne attribuiscono un significato. Solo così però si può avvicinare una coppia di genitori in conflitto mantenendo la terza posizione, perché il rischio più grande di un mediatore è quello di assumere le parti dell’uno o dell’altro coniuge. Rischio sempre presente, a cui nessun mediatore è immune, a patto che abbia veramente fatto proprio il principio che dentro ogni separazione c’è si tanto dolore e anche co responsabilità. Ogni coppia scrive il proprio destino in un gioco drammatico in cui ognuno è attore e sceneggiatore. Chi ha avuto esperienze personali legate ai conflitti famigliari sa quando questi siano violenti e distruttivi. Ed è così, ve lo posso assicurare come professionista e come persona. Allo stesso tempo vorrei dirvi che applicare la non – violenza nei conflitti tra due coniugi è possibile, Gandhi affermava che: “Nella sua forma positiva, ahimsá (non – violenza) significa l’amore piú vasto, la carità più grande. Se sono un seguace dell’ahimsà, devo amare il mio nemico.” Due coniugi hanno trascorso un periodo della loro vita in cui si sono amati, più o meno lungo, però normalmente c’è stato e sono in grado di rintracciarlo nella loro memoria. Infatti si può trovare la soluzione terza al conflitto tra due coniugi quando si recupera il buono, l’amore, che c’è stato nella coppia. Un percorso di mediazione familiare, orientato da un pensiero pedagogico, significa aiutare la coppia a salvare il ciò che c’è stato di buono nella loro storia e usarlo come benzina per riorganizzare le relazioni. Se due persone si sono incontrate, amate e hanno generato la vita c’è sempre un perché, un significato che va recuperato ripulendo il campo dalla violenza e sofferenza che si porta con sé ogni separazione.
Sempre Gandhi affermava nel libro “Antiche come le montagne” che: “La vera educazione consiste nel trarre alla luce il meglio di una persona”. Questo è quello che cerco di fare quotidianamente nel mio lavoro di pedagogista clinico e mediatore familiare e lo posso fare perché l’ho imparato in primis dal prof. Guido Pesci e poi dal dr. Aldo Mattucci, che qui ringrazio per il loro contributo nella mia crescita personale e professionale.

 

BIBLIOGRAFIA

Erickson, S., e McKnight, M. (2001). The Practitioner’s Guide to Mediation: A Client-Centered Approach. New York, NY: John Wiley & Sons.

Erikson, S. e McKnight, M. (1990). Mediating spousal abuse divorces. In Mediation Quarterly, 7(4), 377-388.

Gandhi, M.K. (2009). Antiche come le montagne. Milano: Mondadori.

Scabini, E. e Cigoli, V. (2000). Il famigliare. Legami, simboli e transizioni. Milano: Cortina.

 

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