Che cosa è la vittimizzazione secondaria? Un fenomeno da non sottovalutare nei casi di violenza: l’articolo a cura della Dott.ssa Michela Diani
Premessa di contesto
Sono trascorse giornate profondamente animate e vive sotto il profilo della sensibilizzazione sul tema della violenza contro le donne e le discriminazioni di genere. La società civile, così come le istituzioni e le scuole, sono state impegnate in una molteplicità di iniziative e manifestazioni volte a implementare la consapevolezza nelle persone di ogni età, circa la gravità del fenomeno della violenza e la sua incisività nella vita delle vittime.
I casi recenti di cronaca nera, quali ad esempio, il femminicidio di Giulia Cecchettin, una giovane donna uccisa dall’ex fidanzato, hanno contribuito ad innalzare la soglia di attenzione sia sugli aspetti culturali del fenomeno della violenza che sugli aspetti giuridici.
Parallelamente a quanto accadeva nella società civile, il Parlamento votava un altro pacchetto di leggi che miravano a implementare la legislazione di tutela alle donne, raffinando alcuni passaggi normativi già a disposizione, come ad esempio il Codice Rosso.
Eppure, nonostante questo apparente attivismo incalzante e minuzioso che sembra condurre verso una maggiore consapevolezza, si assiste per contro, da una parte alla emissione di sentenze che appaiono contrastanti fra loro, in relazione alla tutela delle donne che denunciano violenza, dall’altra a percorsi giudiziari tortuosi e dolorosi per coloro che, denunciando la violenza dei propri compagni ed ex compagni, non vengono credute o ritenute credibili e di conseguenza vengono rivittimizzate dalle istituzioni stesse.
Definizione e origini del problema
Possiamo denominare ‘rivittimizzazione secondaria’ quella azione giudiziaria che, a fronte di una presa di coscienza della vittima degli agiti violenti del proprio compagno –agiti non necessariamente fisici – e alla loro denuncia, non fa seguito una tutela corrispondente delle istituzioni, ma al contrario la negazione della violenza, con la trasposizione sul versante di una conflittualità paritaria e reciproca che annulla completamente la differenziazione tra aggressore e aggredita, ignorando cioè, di fatto, chi è l’agente originario della violenza.
E’ bene precisare e sottolineare che l’esistenza di tale pericolo e rischio nelle istituzioni italiane, fu stigmatizzata molti anni fa, dalla rappresentante delle Nazioni Unite, Rashida Manijoo che nel 2011, durante la Convenzione di Ginevra, si dimostrava allarmata per la condotta fortemente inadeguata dell’Italia nella tutela delle donne. Solo successivamente, però, alcune voci isolate e libere, nel campo della magistratura e della cultura, iniziarono a portarne alla luce i passaggi, ricostruendone l’iter e la portata e ponendo tra gli elementi fondanti di questo problema, l’espletamento delle consulenze tecniche di ufficio.
Tale situazione di enorme peso etico e giudiziario ha condotto negli anni anche la Magistratura ufficiale a esternare attraverso circolari specifiche – quali la Circolare del CSM del maggio 2018 – la necessità impellente di promuovere formazione e preparazione degli uffici giudiziari e di tutto il personale preposto ai crimini di relazione.
Ad oggi, tuttavia, né le istituzioni, né i CAV ( Centri Antiviolenza), si sono dimostrati concretamente efficaci nella prevenzione o nella soluzione della rivittimizzazione secondaria, ed anzi, le diatribe associative e molto spesso poco democratiche strettamente vincolate ad alcune frange di femminismo partitico, hanno condotto solamente all’esacerbarsi di un clima sociale sempre più violento e intollerante, spostando sul piano di una feroce guerra di genere un problema che ha origini culturali e che ci chiama tutti, uomini e donne a una nuova presa di coscienza e a una evoluzione nella consapevolezza circa la relazione tra i sessi.
“Siamo un paese che preferisce la guerra civile di genere, spostando sul piano della sicurezza un problema che è di rispetto della diversità e della libertà di essere donna, secondo modelli individuali e non preordinati o disciplinati per decreto”.
(Fabio Roia, Crimini contro le donne, F. Angeli, 2017)
L’educazione come mezzo, via e principio di cambiamento
In questo clima acceso, l’educazione è stata fortemente chiamata in causa, come possibile via di aiuto per la ricerca di soluzioni. Recente è, infatti, anche la riflessione sulla necessità di favorire progettazioni e interventi di carattere educativo, in particolare nell’ambito della educazione affettiva.
Ecco che, quindi, la pedagogia clinica, nata come scienza olistica, ovvero come strumento atto a promuovere il Benessere della persona nella sua globalità, dove antichi saperi si mischiano e si intrecciano con i nuovi delle scienze umane, soprattutto relativamente alle relazioni, non può non accettare la sfida di offrire il proprio contributo alla soluzione di un problema che non riguarda soltanto le donne, ma la Giustizia stessa, il vivere civile, lo stare al mondo in maniera più equa, pacifica e soddisfacente.
Una rivittimizzazione secondaria nasce dalla incomprensione delle vicende umane e giudiziarie, dal conseguente fraintendimento circa i comportamenti delle vittime e dal giudizio condizionato e spesso distorto del punto di vista soggettivo dell’operatore, a causa di pregiudizi che tutti agiamo per automatismi relazionali e culturali; una incomprensione che muove i suoi passi a partire dalla incapacità di leggere tra le dinamiche famigliari gli schemi relazionali e di comportamento disfunzionali e che soggiaciono alle dinamiche del potere e non a quelle dell’amore e del rispetto reciproco. Tali atteggiamenti, come ben esprime la procuratrice Maria Grazia Giammarinaro, possono condurre perfino a una confusione sulle caratteristiche della personalità della vittima, costruendo intorno a lei una visione e un quadro personologico e caratteriale che sarà poi il fondamento della rivittimizzazione stessa.
“[…] chi reagisce alla sistematica destabilizzazione normalmente assume il ruolo di apparente aggressore. Dunque la vittima viene spesso scambiata per il carnefice, o almeno viene considerata persona psicologicamente disturbata, fonte di nevrosi, e sostanzialmente inattendibile”.
(Il trattamento penale della sfera psichica ed emotiva della vittima nei reati di violenza psicologica e sessuale, Maria Grazia Giammarinaro)
Il potere della educazione non è magico e attende e si poggia sulla collaborazione di tutti i soggetti implicati, non è un potere calato dall’alto, ma uno ‘sporcarsi le mani’ del dolore delle persone, unico modo per poter comprendere ciò che accade, pur mantenendo l’oggettività tipica di qualsiasi professione di aiuto.
Nel contempo, l’educazione è un ‘tirare fuori’, dal latino educere, il meglio dagli individui, per promuovere lo sviluppo delle persone in modo che esse siano armoniche e serene con loro stesse e di conseguenza poi apportino positivo valore anche all’esterno nella società.
Il contrario di rivittimizzare, non è semplicemente, non rivittimizzare, ma riodinare quella matassa spesso confusa e ingrovigliata di intrecci relazionali malsani e tossici che impediscono alle persone implicate di crescere e svilupparsi appieno.
Una relazione strutturata sul potere e non sull’amore e sul rispetto reciproco rappresenta un impedimento alla crescita ed è per questo motivo che diviene assai grave l’azione rivittimizzante, in quanto, la sua più prossima conseguenza è esattamente quella di imporre nuovamente alla vittima quei copioni e quegli schemi comportamentali tossici da cui si sta sottraendo e da cui talvolta cerca anche di proteggere i figli.
Una rivittimizzazione secondaria non è semplicemente una ferita individuale sul percorso di vita della vittima, ma una ferita collettiva che ripropone quegli schemi e quelle rappresentazioni che attraverso l’educazione e la formazione sosteniamo poi, attraverso i progettifici, di voler cambiare.
Essa diviene una realtà distopica che consuma le energie delle vittime, impedisce loro e ai figli di uscire positivamente dalla violenza, ricostruendo loro stessi in una nuova dimensione di vita, dimensione agognata e ricercata proprio con la separazione.
Compito del corso, è quindi, addentrarci nei meccanismi e nelle pieghe talvolta sottili della rivittimizzazione, onde trarne spunti e riflessioni che possano permettere agli operatori di essere parte della soluzione e non del problema, nella consapevolezza che il cambiamento parte essenzialmente dal modo in cui ciascun singolo professionista opera, sapendo unire con saggezza ed equilibrio armonico, competenze tecniche e trasversali, come empatia, intuito e una buona dose di coraggio.
Michela Diani
La formazione in Vittimizzazione secondaria: valutazione dei rischi e interventi di prevenzione si propone di sensibilizzare gli operatori che lavorano o intendono lavorare nel comparto di giustizia, che ricoprono ruoli ausiliari o che collaborano con realtà educative di riferimento per i tribunali, sul rischio da rivittimizzazione secondaria al fine di prevenirla e in casi in cui essa sia già avvenuta, cercare di contenerne i danni e collaborare a una azione istituzionale più consapevole. Iscriviti alla formazione, il webinar è in partenza!